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dalla redazioneLe cose cambiano. Il Genoa resta
18/09/2006

 

Ho cominciato a vedere il Genoa al Ferraris agli inizi degli anni ’50.
In quei tempi la squadra rossoblù era al centro dei pensieri e dei
sentimenti dei tifosi genoani.
Erano tempi semplici, di grandi speranze. E anche i genoani erano
persone semplici. Pensavano solo a tifare.
Nessuno si faceva domande sui bilanci della società.


 


Ai dirigenti si chiedeva solo di comprare giocatori validi, cosa che
avveniva sempre più raramente.
Nessuno si interrogava sulla maglia: la si amava così come era.
E nessuno si faceva domande, nemmeno, su come avrebbe dovuto essere
organizzato il tifo allo stadio.
Era la squadra che, col suo modo di giocare arrembante, mai doma,
trascinava con forza tutto il Ferraris, e non solo la Nord, a tifare.

Erano gli anni acqua e sapone della mia adolescenza, ma si potrebbe
dire anche dell'adolescenza della tifoseria genoana.
Andare al Ferraris era un'emozione domenicale alla quale mai nessun
genoano avrebbe rinunciato.
La capienza dello stadio era data per 55.000 spettatori (avevo letto
questo dato sul Calcio Illustrato, e la cosa mi aveva reso molto
orgoglioso, perché il nostro stadio risultava terzo, per capienza,
dopo l'Olimpico e San Siro), ma nelle partite di cartello, quando
arrivavano gli squadroni di Milano e la Juve, nessuno avrebbe potuto
dire in quanti realmente fossimo.
Ricordo partite vissute alla Nord, in piedi, schiacciato come
sull'autobus nell'ora di punta, senza avere la possibilità di
accendermi una sigaretta.

Il tifo era eccezionale e la Nord era considerata, da tutti i giornali
nazionali, un mito del calcio italiano.
Quando, alla fine del dicembre 1948, il Genoa di Verdeal sconfisse, per
3-0 il Grande Torino e conquistò il primo posto in classifica, la
Gazzetta dello sport, nel titolo a tutta pagina, esaltò, oltre alla
squadra, anche il grande tifo rossoblù, considerato il più caldo
d'Italia.
Il modo di tifare alla Nord era spontaneo, seguiva le fasi del gioco:
c'erano dei silenzi profondi e delle esplosioni improvvise.
E quando il Genoa si produceva nel suo famoso assalto finale sotto la
Nord, tutti si alzavano in piedi e tifavano senza un attimo di respiro.
Le parole scandite erano molto semplici, anzi era una parola sola, che
tutti conoscevano, ripetuta all'infinito: "Ge-nua! Ge-nua!
Ge-nua!....".
Una parola sola, ma di una potenza sonora capace di far vibrare le
strutture dello stadio e far tremare gli avversari. Che spesso
andavano nel pallone, e prendevano il gol.
*
Poi l'Italia cambiò, e cambiò, col tempo, anche il modo di tifare allo
stadio.
Improvvisamente, a metà degli anni '60, qualcuno cominciò a parlare di
crisi degli spettatori nei campi di calcio.
Gli stadi non attiravano più le grandi masse, come una volta.
Fu un primo segnale.
Il football stava perdendo la sua innocenza.
La nascita delle SpA, poi, portando nel mondo del calcio una mentalità
imprenditoriale, avrebbe fatto il resto, dando luogo ad un cambiamento
che avrebbe portato, inevitabilmente, al calcio pagato in tv, e alle
quotazioni in Borsa delle Società calcistiche.

Intanto il tifo organizzato, nato all'inizio degli anni '60, prendeva
sempre più campo.
La gradinata Nord piano piano stava cambiando modo di tifare, finché si
arrivò ad organizzare il tifo durante la partita.
Furono anni indimenticabili anche quelli.
Le coreografie della Nord fecero il giro dell'Italia, e tutti ci imitarono.
Il massimo venne raggiunto, forse, in Coppa Uefa, all'inizio degli
anni '90, quando il Ferraris dimostrò all'Europa del football
davanti alle tv di non essere secondo a nessuno.

Ma il tempo è inesorabile e consuma tutto.
La Nord si è via via modificata, fino a vivere gli ultimi anni in modo
sofferto.
E non è stato, credo, solo per la crisi profonda della Società.
C'era una crisi altrettanto profonda che stava minando le fondamenta
del tifo genoano.
La Nord era gravemente malata
Confesso che ho temuto il peggio.
Come sempre accade nei momenti difficili mi sono aggrappato alla
memoria.
Ho pensato ai grandi genoani degli anni '50, che avevo conosciuto nella
mia adolescenza, e ho continuato a chiedermi per mesi e mesi, se tutto
questo, davvero, stesse per finire.

E invece, per fortuna, credo di poter dire che i miei timori siano
stati infondati.
La tifoseria rossoblù ha saputo trovare in sé gli anticorpi per guarirsi.
Ha fatto quadrato, ha reagito alla malattia che la minava, e adesso
-questo è almeno quello che sembra- sta per incominciare a vivere una
nuova adolescenza, fatta di tifo spontaneo, emotivo, come avveniva in
un tempo ormai molto lontano.

E dico adolescenza, perché credo che ci sia un solo modo per essere
genoani: quello acqua e sapone, con semplicità, sincerità d'animo,
e senza malizie.
Come dovrebbe sempre essere per i grandi amori.
Il Genoa è la nostra eterna giovinezza.
E' il passato ma anche il futuro.
E', insieme, tradizione e innovazione, come accade per tutto ciò
che vive e non si limita ad essere vivo.
E non può che esistere, se non nella semplicità, nella lealtà e,
lasciatemelo dire, nella nobiltà d'animo, che fu dei suoi Padri
Fondatori.

A volte sembra che tutto stia per finire e invece non è così, il
discorso è un altro.
Come diceva il titolo di un bel film di Mamet, interpretato dal bravo
Joe Mantegna, le cose cambiano. Tutto lì.
Importante è che il Genoa resti.
E che resti il suo spirito antico, che sa di football (e non di gioco
del calcio in tv, e di quotazioni in borsa) .

Franco Venturelli



 



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