Verdeal nel mio ricordo
Data: 10/11/2004 12.24
Argomento: dalla redazione


“Sembrava non toccar terra”.

Me lo disse un ragazzo che lo aveva visto correre intorno al campo, con la sua falcata aerea, quando era tornato tra noi una volta ancora, per invito del Genoa Club che porta il suo nome.

Ora, toccato dalla notizia della sua morte, anch’io, tra i non più moltissimi a cui resta il ricordo visivo, mi sento tentato, verso i più giovani, ad affrontare l’inesprimibile, a cercar di descriverne l’unicità, l’irripetibilità, che è dei grandi artisti in ogni genere.



Vorrei parlare dell’estetica: del fascino delle movenze di quella figura slanciata. 

Vorrei dire della magica intelligenza creativa.

Vorrei descrivere i palloni morbidi, filanti, telecomandati; le incursioni in profondità; il dribbling ubriacante.

Ancora ragazzo, non potevo immaginare che certe cose non le avrei più viste fare da nessuno.

Ma un aspetto che mi colpiva, nella figura di Verdeal, e forse ha lasciato una traccia  nel mio carattere, travalicava la tecnica, era concettuale, direi filosofico.

Immaginiamo che in un campo di battaglia intervenga una divinità. Un tale essere annichilirebbe i nemici soltanto con un piccolo gesto, senza sforzo, senza bisogno di armi materiali. (In un celebre saggio sui miti, Roland Barthes considerava, dei film di gangster, quanto parchi siano i gesti di comando del boss).

Ora, immaginate un giocatore che, caracollando con le braccia rilassate a penzoloni, “incontra” la palla (con una qualsiasi parte del corpo) quasi come per caso  e la capta senza apparentemente degnarla di attenzione, ma continua a guardarsi attorno nella corsa, che non ha piegato a rallentamenti. (Per confronto, se ci riportiamo a quei tempi, ricordate come Gren, molti anni dopo, immobilizzava il pallone al suo piede?). La sapienza tecnica di quel contatto col pallone quasi sfuggiva allo spettatore, incantato piuttosto dalla disinvoltura e fluidità.

Immaginatelo avanzare con la palla mentre viene affrontato da due avversari in coppia: ecco che entrambi fanno un balzo verso l’esterno e lui passa in mezzo. Gesti tecnici? nessuno, il pallone neppure toccato: soltanto un ondeggiamento di anca appena percettibile. Non un dribbling fisicamente comprensibile, ma portato sul piano astratto delle intenzioni.

In altri casi ancora la finta, sempre di grande efficacia, veniva addirittura soltanto dall’atteggiamento, senza il minimo ricorso a spostamenti né del pallone né del corpo.

Ecco, credo, il mito di Verdeal: una padronanza tecnica tale, da rendersi  occulta.

A rafforzare l’impressione di mancanza di sforzo, coltivava a tratti, quasi per vezzo, un certo qual atteggiamento distaccato. Lo ricordo osservare passivamente il pallone che rotolava verso l’out, quando l’azione forse non gli sembrava degna di impegno. Non mancava allora, tra il pubblico, chi, in una Genova da sempre aperta alle idee socialiste, gli gridava “adèscite!”.

Era più aristocratico che democratico.

Era proprio l’opposto di chi si impegni con continuità nella lotta, di chi (oggi che il calcio è diventato più totalitario) predichi: “dare sempre il massimo!”.

Al contrario, gli sarebbe piaciuta, tra le citazioni memorabili di Franco Scoglio, questa: “durante la partita una squadra deve anche sapersi riposare”.

Forse considerava i propri limiti di resistenza: molto giovane non era. Che potesse dare di più resta una presupposizione.

Ma il sotterraneo problema “sociale” di questa filosofia d’élite, se esisteva,  trovava poi la lisi. Quel blando interesse alle rincorse (ma si è visto anche impegnato a fondo, senza pause!) era un riservarsi per azioni tanto più folgoranti quanto più la folgore si era celata. Non mancanza di professionismo: la sua tattica era funzionale al risultato.

L’idea base del gioco di Verdeal era la discontinuità.

Così come preferiva giocare di seconda intenzione, celando all’avversario lo sbocco inaspettato del palleggio o del tiro, così con la discontinuità spiazzava gli avversari, quando concentrava la dinamica nella fase che riteneva cruciale (spesso verso il quarto d’ora del secondo tempo). Allora cambiava ritmo: scattante, imprendibile, imprevedibile. Per i compagni di squadra era il momento di correre a smarcarsi e lo sforzo non era sprecato! I palloni da gol arrivavano a ripetizione.  Ricordo che una volta, in un Genoa-Napoli con punteggio 0-1, in 10 minuti si passò al  3-1  ma altri due gol furono annullati. Pensate: in 10 minuti esatti, 5 palloni nella porta avversaria! Poi, la partita ritornò a essere normale e terminò 3-2.

Purtroppo mancava il centrattacco di valore che avrebbe fatto grande la squadra; ma c’era il sostegno di un forte blocco difesa-mediana. Dietro di lui giocava Bergamo, arcigno difensore e potente mediano d’attacco e tiratore. L’altra mezz’ala era Formentin, tessitore continuo. Questa presenza mi ricorda un episodio, e sarà l’unico, tra i tantissimi, che vi descriverò.

Era un Genoa-Juventus. Primo tempo, la Juve attacca sotto la Nord.  Le nostre mezzali sono assestate al limite della nostra area. La difesa prende la palla, Verdeal esce palla al piede e a 10 metri dalla nostra area di rigore è chiuso dai tre giocatori che costituiscono la mediana della Juventus e della nazionale: Depetrini, Parola e Locatelli. Apertura secca in orizzontale a destra a Trevisan, uscente anch’egli in contrattacco, facendo passare la palla di fianco a un avversario. Ma la palla batte su una gamba dell’arbitro, che sbuca dietro lo juventino, e rimbalza verso Verdeal nella “gabbia”. Troppo lente le parole!  Al volo, Verdeal  (al volo, senza, tra il rimbalzo e la giocata, “lo spessore di un capello”, come dicevano i Samurai) capovolge il gioco,   lancia lungo, filante, una palla con i giri contati per l’ala sinistra Dalla Torre verso il gol: 1-0 per il Genoa, e fu il risultato finale. Un esempio di come la tecnica gli fosse docile ancella alla fulmineità di pensiero.

Dalla Torre aveva il 38 di piede e colpiva bene di “shoot”, in corsa, quei palloni che, partiti veloci, poi magicamente rallentavano davanti a lui e facevano rimbalzini che erano inviti a tirare al volo.

Altre volte i lanci di Verdeal verso le ali sembravano al primo istante destinati fuori campo, ma poi viravano per frenare davanti al compagno accorrente, con una traiettoria che spiazzava i difensori.

Quando sfuggiva – e quello era un momento di suo impegno – non era facile prenderlo; ma per l’avversario che lo raggiungeva aveva pronta la mossa di contropiede. Nelle incursioni in profondità non era calligrafico o dispersivo: cercava l’affondo, portava l’azione a termine.

Se un difensore avversario ci provava con le cattive e si imbestialiva, allora c’era lo spasso particolare di una serie di entrate a vuoto, tanto più clamorose quanto maggiore era lo slancio. Dal canto suo Verdeal  raramente prendeva dei calci.

Anche il suo tiro da lontano, mai troppo frequente, era ingannevole per il portiere: erano palloni lisci, senza effetto, più veloci di quanto apparissero.

Lo vidi per la prima volta alla partita d’esordio, schierato N. 9 (4-0 al Brescia, due gol suoi e due su suoi lanci alle ali). Al Genoa si aspettava il centrattacco. Ma Verdeal si svincolò dalla marcatura stretta arretrando, e nel secondo tempo si vedeva un attacco schierato a “M”. Poi  prese stabilmente la maglia N. 10.

Era l’intelligenza fatta giocatore di calcio. Bastava che un mediano uscendo dalla difesa gli allungasse la palla e l’azione di illuminava. Aveva il genio della  visione spaziale dei compagni e dei “corridoi”.       

Ogni tanto estraeva un colpo nuovo, che non gli si conosceva, e scoprivamo una nuova maestria. Come un gol di testa in tuffo orizzontale, da far invidia a Puricelli (uruguaiano del Bologna e del Milan, “cabeza de oro”), per sbloccare il risultato nel finale contro la Lazio (poi 3-0) - lui che di testa raramente si faceva notare. Come una punizione vincente con una contorta traiettoria incredibile, nel finale di una partita contro un Milan primo in classifica (1-0): dopo tanti tentativi a cui gli avversari avevano resistito, era ricorso a un calcio franco – lui che di solito non li batteva. (In apertura di partita Becattini aveva salvato la porta con una miracolosa rovesciata in piena rincorsa a fil di traversa).

Il racconto non finirebbe mai.  Eppure furono solo tre anni! Verdeal ci lasciò per andare in una squadra francese di seconda categoria, che portò alla finale della Coppa di Francia.

Ma, coi ricordi che ci erano rimasti, ai miei occhi di ragazzino la sua figura si  era fatta ormai mito, e mi appariva come approdata a quel misterioso territorio  spirituale che lo Zen chiama “arte senza arte”.

 

Vittorio Riccadonna

 

 

 







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