Da Verdeal ad Abbadie: una evoluzione
Data: 27/11/2004 16.25
Argomento: dalla redazione


Quasi tutti i genoani con cui mi trovo a discorrere sono oramai più giovani di me e mi è capitato più volte di sentirmi chiedere un parallelo tra Verdeal ed Abbadie, specie dopo il mio scritto in memoria del primo. Eccomi all’impresa, nei miei limiti di conoscenze e ricordi di semplice spettatore.



E’ evidente un’analogia: arrivati come attaccanti puri, entrambi questi campioni arretrarono subito il loro ruolo. Semplice combinazione? Le ragioni  furono l’ambiente nuovo e certe lacune della squadra.

La Genova del 1946 era una città, come e più delle altre città italiane, ferita di macerie dai bombardamenti nemici. In un difficile dopoguerra, anche lo sport significava una speranza di ripresa. Il calcio italiano risorgeva al girone unico. Verdeal, proveniente da un mondo allora molto lontano, vi sbarcò, si può dire, da sconosciuto. Era considerato un centrattacco.

Nel torneo in cui si trovò, si applicavano le due tattiche di anteguerra, di  origine britannica: accanto al “sistema” di gioco importato per primo in Italia dal Genoa sotto Garbutt, c’era ancora qualche squadra che giocava come ai tempi di De Vecchi: modo che per contrapposizione era detto “metodo”.

Del Verdeal americano in pratica non si sa niente, ma egli in questo ambiente seppe collocarsi benissimo.

Radicalmente diversa la situazione sociale e tattica che avrebbe trovato Abbadie.  Erano passati non moltissimi anni, ma di enorme importanza. Era sopraggiunta una complessa evoluzione, non più ispirata dal mondo anglosassone. Si erano giocati due campionati del mondo.

Accennando all’origine di quelle tattiche di gioco, argomento di interi libri,  rischio di annoiare i molti lettori che sapranno già. Tuttavia ogni artista va colto nel  proprio tempo; e allora coraggio.

Nato in Inghilterra verso la metà del XIX secolo, il calcio deve agli Scozzesi l’apertura alla modernità: fu il Queen’s Park Club a inventare la formazione che oggi potremmo definire 2-3-5 (da cui i numeri sulle maglie, quando furono adottati) e la tecnica di gioco basata sui passaggi e sulle marcature. La nazionale scozzese la assunse nel 1873. In pochi anni la “formazione Queen’s Park” si affermò, mutando mano a mano verso un 2-3-2-3, e regolò il mondo del calcio per moltissimi anni. Due terzini si tenevano alle spalle di tutti, un po’ sfalsati; i mediani laterali marcavano le ali; in fase difensiva le mezze ali arretravano sulle mezze ali avversarie. Tale era dunque la tattica applicata ancora intorno al 1947 da alcune squadre italiane: ad esempio dal Bologna, memore dei fasti del suo gioco di stile danubiano.

Ma nel 1925 era avvenuta una rivoluzione: una “piccola” modifica della regola del  fuori-gioco.
In precedenza, detto in modo semplificato, un giocatore che si trovasse, nel  campo avversario, oltre la palla, era fuori-gioco se non aveva TRE avversari davanti a sé.

Accadde che i due terzini del Notts County, di nome  Morley e Montgomery, si  erano specializzati nel mettere fuori gioco i dispiegamenti degli avversari: uno dei due  a turno avanzava fino alla linea centrale, con l’altro dietro pronto a intervenire. La tattica ebbe tanto successo da generalizzarsi in Inghilterra, col risultato di un gioco molto compresso e di segnature scarse. Pertanto la regola fu cambiata e i TRE avversari scesero a DUE. Le  segnature aumentarono subito anche troppo e nacque la contromisura. Fu l’Arsenal che fece l’innovazione di retrocedere il centromediano a ruolo di terzino centrale, per marcare fisso il centrattacco avversario. I due terzini non potevano restare troppo lontani dalla fonte del gioco e dovettero marcare le ali, le quali, non avendo più da scendere verso la bandierina d’angolo per centrare  all’indietro, giocavano ora di punta: si pervenne quindi alla completa marcatura uomo a uomo. A centro campo giocava un “quadrilatero”. Il gioco acquistò in dinamismo.  Già nel 1930 la nuova tattica era comune in Inghilterra. Fu ammirata a Milano nel 1939, in quella Italia-Inghilterra terminata 2-2 con i famosi episodi del gol di mano di Piola e dell’altro in contropiede di Biavati che il terzino sinistro e capitano Hapgood tallonò per 25 metri senza ricorrere al fallo. La partita era un po’ una rivincita dell’altra famosa Inghilterra-Italia 3-2 del 1935 -  gli orgogliosi inglesi si degnavano di incontrare, in un’unica manche, i campioni del mondo

Ecco dunque l’efficacia di quegli irripetibili lanci di Verdeal verso le ali: il terzino  avversario, senza sostegno, dietro aveva il vuoto, al centromediano veniva preso il tempo per accorrere. Anche le sue incursioni in  profondità, partendo palla al piede dalla tre quarti, aprivano dei varchi.
Tutto questo non sarebbe stato altrettanto facile qualche anno dopo.

Intanto, già nella primavera del 1946, la Bolzanetese aveva vinto trionfalmente il  titolo ligure dei dilettanti (nelle 10 partite del girone finale aveva ottenuto 7 vittorie e  3 pareggi) con uno schieramento sorprendente: un terzino dietro tutti gli altri difensori, un’ala e un mediano arretrati.

L’anno dopo, nel campionato ‘46/’47 di serie B, la Salernitana, allenatore Viani, aveva “inventato” la medesima tattica, che fu chiamata “mezzo sistema”.
Avvicinandosi il campionato del mondo del 1950 in Brasile, si leggeva che gli   Argentini applicavano il  “diagonal” –  nome che dava un’idea di asimmetria. Si vide poi che l’idea era ancora la medesima.
Il giornalista Gianni Brera avendo definito questo difensore in più come “libero da  compiti di marcatura”, il ruolo fu detto poi “libero” tout court.

Questa tattica, coi difensori in maggior numero degli attaccanti, si generalizzò, con varianti e nomi diversi, e si formò una visione difensivista del gioco del calcio. Sarebbe diventata famosa la rude difesa del Padova sotto Nereo Rocco.
Raggiungerà forse il suo vertice nell’Inter sotto Helenio Herrera, il quale appena giunto in Italia aveva impostato un gioco aggressivo al massimo, perdendo però alla fine il campionato per logoramento.

L’Uruguay mantenne una visione calcistica più antica, basata sul forte  arretramento delle mezze ali in fase difensiva.
Poi si vide l’Ungheria di Boszik col centrattacco Hidegkuti arretrato, che umiliò  due volte l’Inghilterra ancora ancorata al “sistema”: 6-3 a Wembley, 7-1 a Budapest.  Siamo arrivati al 1953.

A questo punto è chiaro che, quando Abbadie giunse in Italia, molte cose erano cambiate. Anche per un fuoriclasse non era più così semplice farsi spazio. Le  marcature erano fatte in collaborazione, gli spazi ristretti, gli avversari smaliziati. La sua difficoltà non fu solo di ambientamento. Sopratutto, secondo una mia impressione personalissima, Abbadie nel Genoa non si trovò a svolgere il gioco più corrispondente alle proprie profonde caratteristiche tecniche, fisiche e mentali.

Io credo che il massimo Abbadie fu visto al campionato del mondo del 1954,  dove aveva esplicato il suo autentico gioco, come ala destra.
In quell’Uruguay, che, come detto sopra, manteneva un sapore di antico, Abbadie non aveva il compito di principale creatore di  gioco né quello di principale realizzatore. Era un giocatore di appoggio, che a sua  volta, partecipando allo sviluppo dell’azione, appoggiava poi al compagno. Se nella  sua discesa gli “veniva” di andare a rete, con quel suo elegantissimo dribbling in falcata lunga e cambi di direzione, lo faceva con senso di facilità perché gli si era sbloccata la via, quasi come soluzione secondaria. Quando la mezz’ala allungava ad Abbadie si aveva veramente una  “apertura” dell’azione, con lo sbocco del servizio al loro pungente centrattacco o altro compagno, come termine della discesa. Era come un artista decoratore, che riceve un oggetto grezzo e lo rende rifinito.
Quell’Abbadie, in quella squadra che sembrava giocare al biliardo, poteva  giocare freddamente, “di testa”. Ma nel Genoa dovette giocare col cuore. Collocato  all’ala, non poteva sperare in quei servizi misurati e non trovava in quella squadra (più debole di quella di Verdeal) interlocutori all’altezza del suo alto dialogo, che colpevolmente il nostro Club non seppe procurargli. Dovette pertanto arretrare per mantenersi nel vivo del gioco e fare lavoro di quantità piuttosto che di cesello. Utilizzò la sua meravigliosa tecnica per districarsi dagli avversari, farsi spazio, combattere, contrastare, servire palloni; quando poi riusciva a partire negli spazi, allora assistevamo alle sue azioni più memorabili.
Tornato in America, dopo la malattia e più anziano, utilizzò certo la sua sapienza più a metà campo e in tal ruolo lo rivedemmo a Genova col suo Peñarol.
Abbadie, nel Genoa, mi lasciò l’impressione un po’ penosa di un  purosangue  sacrificato - anche per la sua commovente generosità, mai venuta meno.

Impensabile accostamento al distaccato Verdeal, il quale in un più comodo contesto tecnico sapeva riservarsi per la tranciante incisività delle azioni risolutive. 

Vittorio Riccadonna



Julio César Abbadie



Il Genoa 1956/57 (Abbadie è il 1° in piedi a sinistra)



Un gol di Abbadie



Verdeal è l’ultimo a destra accosciato



Juan Carlos Verdeal







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