A uomo o a zona?
Data: 04/09/2016 21.52
Argomento: l'opinione



A uomo o a zona?

Evidentemente l'argomento non appassiona solo i "tecnici" di Genoadomani se Roberto Beccantini sulla Gazzetta di giovedì, a margine degli ultimi colpi di mercato, ha ritenuto di affrontarlo titolando nella stessa maniera ma sostituendo al punto di domanda la battuta "si difenda chi può".

(tratto dai “pensieri in libertà” di oggi)



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La caccia al difensore ha agitato l'ultimo mercato. Da Leonardo Bonucci, per il quale il ManCity di Pep Guardiola era pronto a investire 60 milioni, ad Alessio Romagnoli, classe 1995, il pilone del Milan che Antonio Conte avrebbe voluto nel suo Chesea. Il fenomeno è generale. Non a caso il City ha ripiegato su John Stones dell'Everton, reclutandolo al modico prezzo di 50 milioni di sterline.

Non siamo ai livelli di Paul Pogba e nemmeno di Gonzalo Higuain ma non v'è dubbio che rispetto al passato la domanda abbia superato l'offerta. E' una tendenza che, in un certo senso, sottende non dico la scomparsa, ma qualcosa ad una forte decimazione, come se il mestiere di difendere, nello sport, fosse diventato , o venisse considerato, un ineludibile obbligo e non più una scelta libera.

Non è facile risalire all'origine della crisi, ammesso che il termine sia calzante. C'era una volta la scuola italiana, al cui interno si difendeva più di singolo che di reparto. La diffusione della zona ha contribuito a inquinare la marcatura ortodossa - a uomo, per intenderci - declassandola a strumento giurassico o comunque parziale. Il calcio totale dell'Olanda rimescolò le carte, i catechismi totalizzanti degli imitatori le confusero fino a renderne goffa la lettura.

Insegnare la marcatura a uomo cominciò a rappresentare, fin dai vivai, un segno di "mala erudizione". E così si arrivò al risibile compromesso di "zoneggiare" persino nel cuore dell'area, paradosso che intaccò il tirocinio e sabotò la crescita. Il difensore puro come sinonimo e simbolo di calcio retrò: niente di più sbagliato. Il difensore "impuro" che ne ereditò le mansioni e la posizione altro non fu che un maldestro tentativo di adeguare il modo alla moda, i tempi (d'intervento, di rilancio) al tempo.

Secondo Lodovico Maradei, firma storica della "Gazzetta", chi marca a uomo sceglie chi marcare, mentre chi marca a zona lascia agli attaccanti scegliere da chi esserlo. Anche questo aiuta a spiegare il tunnel dentro il quale si è ficcato il difensore, in bilico tra vecchio e nuovo testamento.

E poi la televisione. Non c'è più "parità" tra coloro che segnano e coloro che si pongono l'obiettivo di non far segnare. il gol - e quindi il goleador - è assurto a unità di misura quasi tirannica, molto lontana dall'equilibrio, più garbato, che aveva caratterizzato i rapporti del secolo scorso, quando un colpo di reni valeva un colpo di testa. Non escludo che il bombardamento di reti e la relativa beatificazione dei cannonieri abbiano agevolato il crollo delle vocazioni. Lungi da me l'idea o l'intenzione di avvicinare Fabio Cannavaro, l'unico Pallone d'Oro prodotto dalla categoria dei difensori puri, a Pelè, a Diego Armando Maradona o a Leo Messi. Nello stesso tempo, però, non si può non ribadire come la forbice si sia allargata.

Ma il punto saliente, l'elemento cioè che ha ridotto o banalizzato il ruolo di marcatore, credo sia il regolamento. Fino alle notti magiche degli anni Novanta, comandavano i difensori. Dopo, il potere è passato agli attaccanti. E allora: non più eroici Piave su cui costruire fior di leggende, ma corsie privilegiate per incursori e tuffatori, con annesse e pesanti ricadute sulla reputazione e il morale delle sentinelle. Un trasloco cruciale. Come fondamentale è stata la globalizzazione che, con il "meticciato" tecnico e tattico in atto da lustri, ha unito il mondo mischiandone le cattedre, gli stili, il difensore moderno, figlio del "baricentro alto", sembra uscito dalla penna di Luigi Pirandello: uno, nessuno e centomila.

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